venerdì 27 giugno 2008

Vino italiano in Cina

Impressioni e commenti di un operatore italiano
di Daniele Brunori


Il mercato cinese del vino assomiglia ad una bottiglia di Prosecco; una bottiglia a cui è stata appena incisa la capsula esterna. La gabbietta è ancora al suo posto ed il tappo dovrà ancora aspettare un po’ prima di godersi la sua rumorosa libertà.
Fuor di metafora è innegabile che il mercato cinese è ancora lontano da una vera e propria esplosione, presentandosi ancora acerbo su molti aspetti.
In primis, le quantità non sono ancora paragonabili con i più profittevoli mercati europei, quello statunitense o quello russo, specialmente se si considerano i vini d’importazione. Dei 4 milioni di hl consumati in Cina soltanto una percentuale tra il 7-10% è attribuibile alle importazioni.
In secondo luogo il vino non fa parte della cultura cinese; la stessa lingua cinese non presenta una parola ad hoc. In mandarino jiu significa vino ma anche liquore in generale, tanto che bai jiu (letteralmente “bianco vino”) non si riferisce a Vermentino o Chardonnay ma a distillati di riso. Per indicare il vino come lo intendiamo noi occorre specificare putao jiu (vino d’uva).
Altro fattore frenante è rappresentato dalle tasse d’importazione che, sebbene in diminuzione, ammontano a quasi il 50% del valore del vino. Inoltre l’atteggiamento malcelatamente protezionista delle dogane cinesi (ritardi, richieste esose di certificazioni, aumento arbitrario del valore presunto, etc.) non fa che aggravare la situazione.
Cosa fa ben sperare allora? Per fortuna esistono potenzialità convincenti.
La costante crescita di una classe media che ha nei milioni di chuppies, i più appetibili consumatori di vino importato.
Va anche specificato che la trattazione del mercato cinese nel suo complesso è sicuramente una prospettiva dispersiva se non del tutto erronea. Le grandi aree metropolitane di Shanghai, Pechino, Tianjin, Guangzhou, Shenzhen assomigliano molto più alle cities europee piuttosto che alle zone rurali della Cina interna. Gli stessi consumi pro-capite che nella old China non raggiungono gli 0,3 l. pro capite, mentre nelle suddette aree raggiungono quasi 10 volte quel valore con tassi di crescita che hanno permesso incrementi annui delle importazioni oscillanti tra il 30% e il 50% dal 2001 ad oggi.
Quanto al vino italiano, la situazione presenta altresì luci ed ombre.
Gli aumenti del primo semestre 2007 (+56,7%) fanno ben sperare, ma le quote di mercato in mano a Francia (37%) e Australia (22%) palesano la necessità di un approccio al mercato diverso. Un approccio più market oriented (ad esempio un po’ di umiltà a studiare i gusti cinesi in fatto di sapori ed etichette non guasterebbe) condotto non solo dalle singole aziende ma supportato a livello di sistema, con l’auspicabile coinvolgimento di istituzioni, consorzi e associazioni. In questo francesi e australiani sono stati maestri.
È evidente che politiche di marketing del genere comportano corposi investimenti di denaro, tempo e risorse umane, con una visione almeno di medio periodo.
Investimenti che però permetterebbero di salire sul tappo prima che la Cina si decida a togliere capsula e gabbietta.

1 commento:

  1. Interessante davvero! Vedendo di persona quanto vino australiano e francese viene venduto qui in Cina mi era venuta una mezza idea di importare qualche bottiglia nostrana. L`immagine che hai dato del mercato nel suo insieme e` davvero utile, e mi ha fatto capire un po` meglio come stanno realmente le cose: tipo i dazi sul vino importato o le quote di Francia e Australia.
    Complimenti per il blog!

    Riccardo, Shenzhen.

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